Danilo Zolo1. Il tema del rapporto fra i processi di globalizzazione e il fenomeno migratorio è di drammatica attualità e di crescente rilievo politico. Questo rende molto utile l’impegno degli autori del presente volume, dedicato alla difesa dei diritti elementari dei migranti e alla denuncia delle sopraffazioni e dello sfruttamento di cui essi sono vittime in Europa, e in particolare in Italia. La denuncia è tanto più incisiva perché analizza gli strumenti normativi, amministrativi e giudiziari di cui le autorità politiche si giovano, legalmente e, spesso, illegalmente. Un esempio clamoroso è rappresentato dai provvedimenti recentemente decisi dal governo italiano per iniziativa del ministro degli interni Roberto Maroni: un ministro la cui visione politica si caratterizza per ilmiope egoismo xenofobo e per una crudeltà intellettualmente meschina e moralmente spregevole.
Eliminate le norme che obbligavano i medici italiani a denunciare i pazienti
stranieri “irregolari” – la protesta del mondo sanitario è stata in questo caso efficace,la barbarie giuridica e la ferocia sociale del governo in carica si è manifestata attraverso una serie di norme contenute in un Disegno di legge sulla sicurezza.
Il documento rilancia l’idea delle “ronde” di sorveglianza e il prolungamento sino a sei mesi della detenzione degli immigrati “clandestini” nei famigerati Centri di identificazione ed espulsione.
A queste norme si aggiungono, nel medesimo Disegno di legge, il divieto di iscrizione all’anagrafe dei figli degli immigrati senza permesso di soggiorno e l’impossibilità di iscriverli nelle scuole pubbliche. L’approvazione di questa legge da parte della maggioranza parlamentare sembra del tutto scontata e questo dà la misura della deriva esterofoba e tendenzialmente razzista che sta investendo l’Italia (e l’Europa) e che deforma e infanga l’idea stessa di cittadinanza democratica.
Sotto l’effetto dei processi di globalizzazione la cittadinanza torna ad essere un dato soltanto formale, con una connessione sempre più incerta con i diritti dei cittadini, con la loro dignità e autonomia, con il loro sentimento di solidarietà e di appartenenza a una comunità politica.
La cittadinanza tende a divenire una pura ascrizione anagrafica che sopravvive come uno strumento giuridico di discriminazione dei non cittadini, in particolare dei migranti provenienti dalle regioni più povere del mondo.
La cittadinanza tende ad operare come una clausola che esclude i migranti dalla titolarità o dal godimento dei diritti di cui usufruiscono non solo i cittadini, ma anche gran parte degli stranieri non stigmatizzati come “migranti”,irregolari o meno.
È una clausola che li riduce, soprattutto se provenienti dall’Europa orientale o dal continente africano, nella condizione di non-persone: li discrimina, li respinge o li priva della libertà.È sempre più evanescente la grande, nobile idea, riproposta da Thomas Marshall nella seconda metà del secolo scorso: la cittadinanza come luogo in cui si realizzano le condizioni politiche, economiche e sociali della piena appartenenza di un soggetto ad una comunità organizzata
1. La cittadinanza non è più l’ambito della realizzazione effettiva – non della semplice titolarità giuridica – di aspettative sociali collettivamente riconosciute come legittime, espressione di una solidarietà pubblica fruita e condivisa da tutti i cittadini. E si dissolve a maggior ragione l’idea welfaristadel carattere inclusivo ed espansivo dei diritti soggettivi in una traiettoria evolutiva che dovrebbe correggere la deriva discriminatoria dell’economia di mercato,procedendo per tappe successive dai diritti civili a quelli politici e a quelli sociali,verso approdi sempre più egualitari e potenzialmente aperti ai non-cittadini.
Non andrebbe dimenticato che il senso di appartenenza ad un gruppo politico e
sociale è la condizione della lealtà dei cittadini alle sue istituzioni.
In assenza di un sentimento di appartenenza, e cioè di condivisione di una storia e di un destino comune, è inevitabile che la logica centrifuga delle secessione o del particolarismo corporativo prevalga sui vincoli dell’obbligazione politica.
Il senso di appartenenza è anche la condizione perché si affermi un sentimento minimo di solidarietà politica fra cittadini appartenenti a diverse condizioni sociali.E solo chi è solidale con i socialmente “diversi” è orientato al rispetto anche di chi non appartiene alla sua etnia ma chiede di esservi incluso e accettato. Normalmente, chi è privo di identità comunitaria non riconosce l’identità degli “altri”.
2. A partire dalla fine della Guerra fredda, nei paesi occidentali si sono verificate profonde mutazioni del sistema politico ed economico, tali da stravolgere le trutture stesse della cittadinanza. I processi di globalizzazione hanno favorito il passaggio dalla società dell’industria e del lavoro alla società postindustriale dominata dalla rivoluzione tecnologico-informatica e dallo strapotere delle forze economiche e finanziarie che sfruttano le dimensioni globali dei mercati proiettando le disuguaglianze sociali su scala planetaria.
Il fallimento del “socialismo reale” e la spinta della globalizzazione hanno messo in crisi anche le istituzioni del Welfare state e hanno fortemente contratto i diritti sociali, a cominciare dal diritto al lavoro, soprattutto delle nuove generazioni.
Il globalismo economico conse alle grandi corporations di sottrarsi ai vincoli delle legislazioni nazionali, in particolare all’imposizione fiscale. Nello stesso tempo lo sviluppo tecnologico ha aumentato la produttività delle grandi imprese che tendono a disfarsi della forza-lavoro che non sia altamente specializzata e di questa si servono secondo le modalità del lavoro interinale o a tempo determinato, con la conseguenza di un costante aumento della inoccupazione e della disoccupazione.
Il fenomeno è particolarmente grave nei paesi “in via di sviluppo”,come ha recentemente segnalato Luciano Gallino. In India, dal 1996 al 2007, si sono suicidati 250 mila contadini, perché oppressi dalla fame e dai debiti. La ragione della loro condizione miserabile – loro e delle loro famiglie – è dovuta alleestesissime monoculture imposte dalle corporations europee e statunitensi, che impediscono loro di procurarsi il cibo con le proprie mani.Sul piano internazionale si affievolisce il potere di gran parte degli Stati nazionali e si scompongono gli equilibri geopolitici e geoeconomici che si erano stabilizzati nel secondo dopoguerra.
E si profila una “costituzione imperiale” del mondo: gerarchica, violenta, eversiva dell’ordinamento giuridico internazionale. Una inarrestabile deriva concentra il potere internazionale – anzitutto quello militare – nelle mani di un ristretto direttorio di grandi potenze sotto la guida della massima potenza nucleare del pianeta, gli Stati Uniti d’America.
Anche sotto questo profilo l’ideale della cittadinanza – strettamente legato alla forma politica dello Stato sovrano – sembra esposto a sollecitazioni distruttive. Nel contesto neo-imperiale la violazione dei diritti fondamentali delle persone è un fenomeno di imponenti proporzioni.
Se si deve prestare fede ai documenti delle Nazioni Unite e ai rapporti di
organizzazioni non governative come Amnesty International e Human Rights Watch,
milioni di persone oggi sono vittime in tutti i continenti di gravi violazioni dei loro diritti più elementari. Fra queste vittime vanno inclusi anche i milioni di migranti che attraversano interi continenti – a cominciare dall’Africa – alla ricerca disperata della sopravvivenza e di un minimo di dignità.
Ci sono aree del pianeta da dove centinaia di migliaia di persone partono abbandonando le loro famiglie, i loro affetti, le loro case, i loro villaggi, la loro lingua, le loro tradizioni, i loro universi simbolici ed estetici, le loro credenze religiose, i loro canti, il loro cibo. Dopo lunghissime peripezie – spesso
mortali –, tentano di essere accettati in paesi diversissimi dai loro sotto infiniti punti di vista, e assai più ricchi e potenti dei loro.
Si calcola che sono ormai quasi due milioni i migranti che da sud a nord attraversano i deserti africani, entrano in Libia superando i confini del Sudan e del Niger e convergono verso le coste del Mediterraneo alla ricerca di imbarcazioni di fortuna per raggiungere l’Europa.
Un cimitero chiamato Mediterraneo è il titolo di un libro recente sulla tragedia delle migliaia di migranti che hanno perso la vita e ora giacciono in fondo al mare
2. Ma si potrebbe scrivere un altro libro non meno drammatico, intitolato “Un cimitero chiamato deserto sahariano”.L’ampiezza del fenomeno migratorio non è soltanto la conseguenza delcarattere dispotico di molti regimi politici, di sanguinose guerre civili o di condizioni generali di arretratezza economica, aggravata dalle crescenti turbolenze ecologiche.
Le migrazioni sono strettamente legate alla crescente discriminazione a livello globale fra paesi ricchi e potenti, da una parte, e paesi deboli e poverissimi dall’altra.Dipende dalle decisioni arbitrarie di soggetti internazionali dotati di grande poterepolitico, economico e militare: un potere che i processi di globalizzazione hanno reso soverchiante e incontrollabile e contro il quale la sola replica in atto è oggi la violenza del global terrorism, tanto sanguinaria quanto impotente.
Responsabili della discriminazione globale sono anche le guerre di aggressione delle potenzeoccidentali, non meno terroristiche del terrorismo di radice islamica.
E lo sono molti altri fattori: la persecuzione politica, i maltrattamenti carcerari, il genocidio, la povertà, le epidemie, il debito estero che dissangua i paesi più poveri, la devastazione dell’ambiente, lo sfruttamento neo-schiavistico dei minori e delle donne, l’oppressione razzista di popoli emarginati: dai palestinesi ai curdi, ai tibetani, ai Rom, agli indoamericani, agli aborigeni africani, australiani e neozelandesi.
Il quadro della distribuzione della ricchezza su scala globale è allarmante sia
per i suoi dati attuali, sia, e soprattutto, per le tendenze in atto.
Ricostruite in termini generali, e tenendo conto soltanto di dati elaborati da istituzioni ufficiali, le dinamiche dello sviluppo diseguale negli ultimi trent’anni si presentano a livello mondiale nei termini seguenti.
Agli inizi degli anni sessanta il 20% più ricco della popolazione mondiale disponeva di redditi trenta volte superiore a quelli del 20% più povero.Oggi, dopo circa cinquant’anni, il 20% più ricco gode di redditi di circa 70 volte superiori a quelli della fascia più povera della popolazione mondiale.
Questa proporzione è però calcolata sulla base del confronto fra Stati. Se si tiene conto anche delle sperequazioni distributive interne a ciascun paese – in Brasile, ad esempio, il 20% più ricco della popolazione si attribuisce circa il 70% del reddito nazionale mentre al 20% più povero va meno del 2% –, la disparità globale aumenta ulteriormente: il 20% più ricco della effettiva popolazione mondiale è destinatario di una quota di ricchezza almeno 160 volte superiore a quella del 20% più povero.In quarant’anni la distanza fra i paesi più poveri e i paesi più ricchi, calcolata intermini di PIL – ma risultati analoghi si ottengono misurando le quote di partecipazione al commercio mondiale, l’entità del risparmio e degli investimenti
interni – si è dunque più che raddoppiata.
3. Come aveva sottolineato John Galbraith nella prefazione allo Human Development Report delle Nazioni Unite del 1998, dieci anni fa il 20% della popolazione mondiale più ricca si accaparrava l’86% dei consumi mondiali, mentre il 20% più povero consumava l’1,3% di tutti i beni e servizi prodotti.
Le 200 persone più ricche del mondo disponevano di risorse superiori a quelle dei due miliardi di persone più povere. Tutto questo è molto grave, ma l’aspetto più preoccupante è che la diseguaglianza di reddito fra i due estremi della piramide della stratificazione sociale è da alcuni decenni in forte accelerazione
4. Si prevede che, se non cambieranno drasticamente i tassi attuali dello sviluppo globale e le attuali proporzioni distributive, nel 2020 il divario fra il quarto più ricco della popolazione mondiale e il quarto più povero sarà del 300% superiore al divario attuale
5. Di fronte a questo panorama sempre più allarmante c’è chi si rifugia
nell’ottimismo ad ogni costo. Antonio Negri, ad esempio, ha sostenuto nel suo
celebre Empire che la crisi delle cittadinanze nazionali, l’erosione della sovranità
degli Stati e l’affermarsi di un ordine imperiale del mondo è foriero anche di sviluppi positivi, nel senso che prelude all’affermarsi di una cittadinanza cosmopolitica, di un universalismo delle “moltitudini” capaci di insediarsi entro le strutture di potere dell’’impero globale’, occupandole senza distruggerle
6. Altri autori – fra questi spicca Luigi Ferrajoli con il suo recente Principia Iuris
7 – hanno sostenuto che la cittadinanza nazionale è una istituzione che deve essere cancellata e che la sua crisi merita di essere guardata con favore e assecondata.
Lungi dall’essere un fattore di inclusione e di eguaglianza, la cittadinanza è un privilegio di status, è l’ultimo relitto premoderno delle diseguaglianze personali in contrasto con l’universalità dei “diritti fondamentali”
8. Non ci sarà pace e giustizia nel mondo, né rispetto dei diritti soggettivi, sostiene Ferrajoli, finché non saranno abbattute le frontiere degli Stati
dietro le quali si annida il particolarismo delle cittadinanze nazionali.
Solo una cittadinanza universale e un ordinamento giuridico globale garantito da una poliziainternazionale alle dipendenze delle Nazioni Unite e della Corte penale internazionale sono obiettivi istituzionali coerenti per chi abbia a cuore la tutela e la promozione dei diritti fondamentali di tutti gli uomini e non i privilegi dei soli cittadini.
Queste tesi – tipiche dei teorici che Hedley Bull ha ironicamente chiamato
Western globalists – sono ispirate da presupposti filosofici che rinviano o
all’universalismo umanitario del comunismo utopico, oppure, sempre più spesso, alla
tradizione del moralismo kantiano che ha trovato autorevoli epigoni in autori come
Hans Kelsen, Jürgen Habermas, John Rawls, Ulrich Beck.
Si tratta di filosofie globaliste che sembrano ignorare che la dottrina dei diritti dell’uomo, l’esperienza dello Stato di diritto e del costituzionalismo, le istituzioni liberal-democratiche si sono affermate nel contesto delle cittadinanze nazionali sviluppatesi, dopo il superamento dell’universalismo politico e giuridico del medioevo, entro i confini degli Stati nazionali europei.
La proiezione universalistica di queste esperienze, al di là della sua vistosa assenza di realismo politico, dà per scontata la natura universale dei valori occidentali, a cominciare dalla Dichiarazione universale (in realtà occidentale) dei diritti umani del 1948, dalle istituzioni democratiche, dalla economia di mercato.
Ma si tratta di un’assunzione tanto rischiosa quanto controversa, poiché l’universalismo etico e giuridico dei Western globalists ha dato ampia prova di essere paradossalmente in sintonia con l’universalismo neocoloniale delle potenze
occidentali.
Nell’ultimo decennio del secolo scorso autori globalisti e cosmopoliti come Habermas, Rawls, Beck e, almeno in parte, lo stesso Bobbio, hanno approvato come
guerre giuste perché “umanitarie” le guerre di aggressione scatenate dall’Occidente
contro Stati sovrani non in grado di difendersi: si pensi alla guerra per il Kosovo e
alle aggressioni contro l’Afghanistan e l’Iraq.
La cancellazione della cittadinanzanazionale e dei suoi valori in nome dell’ideale universalistico della cittadinanza universale è una strada che conduce, nonostante le buone intenzioni dei suoi sostenitori, nelle braccia dell’imperialismo statunitense e del suo progetto di egemonia mondiale mascherato sotto le vesti della diffusione planetaria dei valori occidentali.
E finisce così per giustificare la strage di decine di migliaia di civili innocenti e la devastazione dei diritti più elementari, a cominciare dal diritto alla vita.
Ciò che, a parere di chi scrive, si deve fermamente opporre all’ottimismo cosmopolitico espresso da questi autori – ottimismo circa la realizzabilità di uno “Stato di diritto” planetario e di una “cittadinanza cosmopolitica” – è la sempre più netta divisione del mondo in un ristretto numero di paesi ricchi e potenti e in un gran numero di paesi poveri e deboli
9. In questa situazione non sembra possibile dar vita a un ordinamento giuridico internazionale che non sia rigidamente gerarchico e che non neghi il principio stesso dell’eguaglianza formale dei soggetti di diritto, come del resto ha già ha fatto la Carta delle Nazioni Unite istituendo la figura dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e attribuendo loro il diritto di veto.
Anche sul terreno politico ed economico sembra poco prudente interpretare i processi di globalizzazione in atto come il superamento del “sistema degli Stati” (sovrani) e come l’avvento di una “società civile globale” tendenzialmente omogenea, pacifica edemocratica.
In questa interpretazione, caratteristica del federalismo e del pacifismo cosmopolitici, c’è molto probabilmente una sottovalutazione dei fattori economi cofinanziari entro la dinamica delle relazioni internazionali.
Si tende a trascurare il fatto – segnalato autorevolmente, fra gli altri, da Joseph Stiglitz10 – che la crescente differenziazione dei ritmi dello “sviluppo umano” nelle diverse aree continentali del pianeta è in molti casi favorita proprio dai processi di globalizzazione dell’economia internazionale.
3. Che cosa è possibile fare?Quali strategie, in particolare la sinistra europea, può adottare sul terreno della difesa delle conquiste fondamentali della cittadinanza democratica?
Come si può far convivere i valori della cittadinanza con l’apertura versole altre culture, civiltà e cittadinanze?
Come accogliere e ospitare i migranti senza sfruttarli, discriminarli e perseguitarli facendoli vittime della logica del “capro espiatorio”?
Come attenuare i flussi migratori in presenza di un’abissale, crescente differenza fra il mondo dei ricchi e potenti e il mondo dei deboli e poveri?È semplicemente illusorio ritenere che gli squilibri economici internazionali,che sono la principale causa del fenomeno migratorio, possano essere in qualche misura attenuati ricorrendo alla attuali istituzioni internazionali o richiamandosi al diritto internazionale come garanzia globale dei diritti umani.
In una visione realistica e non banalmente normativistica del diritto internazionale è inevitabile riconoscere che si tratta di un apparato normativo che non svolge altra funzione che quella di legittimare lo status quo imposto dalle grandi potenze con la forza delle armi.
Ciò che può essere più realistico e meno ambizioso – anche se tutt’altro che agevole – è unastrategia di affermazione dei diritti di cittadinanza che riconosca agli stranieri che vivono e lavorano in un determinato paese il diritto ad una presenza stabile nel territorio, e accompagni questo diritto con garanzie giurisdizionali efficaci contro ogni forma di discriminazione e di sfruttamento. A certe condizioni, precisamente definite dalle legislazioni statali, questa strategia dovrebbe garantire agli stranieri, soprattutto se migranti, la possibilità di acquisire rapidamente la cittadinanza civile, politica e sociale del paese che li ospita, assumendo irrevocabilmente la qualità di cittadini optimo jure.
Soltanto una piena consapevolezza dei valori e, nello stesso tempo, dei limiti e
delle tensioni della cittadinanza e, in essa, dello Stato di diritto, può consentire una elaborazione teorica e un impegno politico adeguato, nel quadro di un progetto generale di affermazione dei principi costituzionali e di ricostruzione delle istituzioni democratiche. Sul terreno propriamente politico una coerente teoria della cittadinanza dovrebbe proporre una “lotta per i diritti” che non si risolva in parole d’ordine generiche e moralistiche, astrattamente giuridiche.
In alternativa alla retorica secolare del bene comune e dei doveri dei cittadini occorrerebbe mettere a punto una tavola di rivendicazioni normative rivolte contro i rischi crescenti di discriminazione cui vanno incontro i cittadini emarginati – fra questi in primo luogo i migranti – perché non affiliati alle grandi corporazioni economiche, finanziarie, multimediali, professionali e religiose.
Dunque il vero problema non è quello di aprire le frontiere di tutti gli Stati del
pianeta riconoscendo a tutti gli abitanti del globo il diritto di entrare in qualsiasi paese, di abitarvi stabilmente, di lavorare ed eventualmente di raccimolare qualche guadagno per poi ritornare al proprio paese profondamente trasformati da molti punti di vista e culturalmente e spiritualmente impoveriti.
Il problema non è la garanzia dello jus migrandi, concetto universalistico che risale addirittura a Francisco de Vitoria, il teologo scolastico celebre per aver giustificato come “guerra giusta” lo sterminio degli indios americani da parte dei cattolicissimi conquistadores spagnoli.
Il problema è esattamente opposto: è quello di consentire a tutti – se lo desiderano – di non emigrare per nulla, come fanno i cittadini dei paesi ricchi e potenti. La soluzione non sta nella cancellazione della cittadinanza e dei diritti di cittadinanza a favore di una fantomatica “cittadinanza mondiale”.
Questa è un’arcaica utopia illuministica che dovrebbe essere rifiutata anzitutto per ragioni antropologiche. La cancellazione delle diversità identitarie custodite dalle istituzioni della cittadinanza ci porterebbe – come in parte sta già avvenendo – all’appiattimento delle civiltà e delle culture, alla omologazione delle espressioni letterarie, artistiche, linguistiche e di tutte le diversità che oggi sono il patrimonio evolutivo dell’umanità e che ne fanno la bellezza, la ricchezza spirituale e simbolica, l’originalità. In poche parole, l’auspicatacivitas maxima cancellerebbe la complessità del mondo e la trasformerebbe nella violenta uniformità dell’economia di mercato, del consumo, dell’uso delle armi, della represione del dissenso, degli interessi di alcune grandi potenze egemoni, in larga prevalenza occidentali.
L’accoglienza degli stranieri, anche la più ampia e generosa, non può
comportare la nientificazione dell’identità di un popolo.
Sembra vero l’opposto. Un popolo senza identità non è capace di accoglienza.
Un popolo senza una sua lingua,sue tradizioni, sui universi simbolici, sue regole di convivenza politica non sa e nonpuò “ospitare” nessuno: può soltanto sfruttare, emarginare, opprimere, e, se del caso,fare stragi.
Chi oggi in Italia si accanisce contro i migranti è normalmente un soggetto
privo di autonomia culturale e di identità personale, senza alcun senso di
appartenenza ad una cittadinanza e ai suoi diritti, ad una storia e a un destino comune:basti pensare agli esponenti della Lega Nord, tanto ferocemente xenofobi quantovolgari e culturalmente analfabeti.
Anziché accarezzare la velleitaria e allarmante prospettiva di una cittadinanza mondiale governata da una polizia internazionale,occorrerebbe dunque pensare ad un mondo liberato dal dominio delle grandi potenze politiche ed economiche, nel quale venga restituita l’identità, l’autonomia, la dignità e un minimo di potere e di benessere ai popoli che lottano per raggiungere questi obiettivi, cominciando dal popolo palestinese che da decenni lotta disperatamente per questo.
Ciò che conta è assai meno lo jus migrandi che non il diritto di vivere e morire nella propria terra (dopo avere possibilmente attraversato il mondo non da servi ma da persone “diverse” e proprio per questo dignitose, rispettate, preziose).
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